domenica 15 aprile 2018

Stallone non è un cane. Prima lezione di estetica ggervinhica. De Appercetione

Oggi vi voglio parlare di uno dei concetti che ritengo più importanti nella mia personalissima teoria estetica: l'appercezione.

Il termine è di origine leibniziana, o perlomeno così sostiene il mio dizionario filosofico (L'Abbagnano-Fornero), e serve ad esprimere per Leibniz la capacità solo umana, che quindi manca alle bestie, come ai cani per esempio, di essere consapevoli delle proprie percezioni. Ora, questo non è del tutto vero, Leibniz è il signore assoluto dei continuisti, non esiste in cielo ed in terra una filosofia più continuista della sua, è quindi per me improprio dire di Leibniz che facesse una distinzione così netta (gli umani sì, i cani no). Quello che Leibniz intende con appercezione è solo una nozione relativa, serve infatti a dire che in ogni percezione (chessò, la vista di un fascio di luce) c'è una parte di questa percezione di cui siamo consapevoli, di cui abbiamo appercezione (una fascio di luce che penetra dalle serrande, che è ben distinto dal resto della stanza più buia e dal tavolo su cui si proietta) ed altre percezioni, che noi in qualche modo percepiamo, ma di cui non siamo consapevoli, non ne abbiamo appercezione (la moltitudine di colori che è presente in quel fascio, in cui quel fascio è scomponibile). Ogni singola percezione è quindi contemporaneamente qualcosa al nostro livello di consapevolezza ed una infinità di altre cose a livelli di consapevolezza a noi superiori od inferiori, un fondo oscuro ed indistinto, che in qualche modo percepiamo, ma di cui non siamo consapevoli. Stessa identica cosa per gli animali, ma con livelli di consapevolezza più bassi. Dovete immaginare una sfumatura di chiaroscuri di possibilità di consapevolezza che non è mai del tutto nulla, e parte dalle pietre (o da quello di cui sono composte) veramente poco consapevoli, ma un pochino comunque sì, ed arriva fino agli angeli, individui (!?) consapevolissimi, ma mai del tutto. Dio lasciamolo perdere che solo Dio ha capito cosa pensasse Leibniz di Dio. Quindi, salvata la mia correttezza accademica, posso abbandonare Leibniz e continuare a spiegarvi cos'è la appercezione per me, al cinema o in TV. Abbiamo il primo mattoncino: gli umani si appercepiscono mentre invece i cani no. Importante.

Il termine, sempre seguendo il mio Abbagnano, finisce in bocca a Wolff con più o meno lo stesso significato, difatti la definì "l'attività per la quale noi percepiamo noi stessi come soggetti percipienti e ci distinguiamo perciò dalla cosa percepita". Chiaro? Se qualcuno venisse da te mentre stai percIpendo e ti chiedesse: -Che stai a fa?- Tu non esiteresti nemmeno un attimo nel rispondere: -Sto percIpendo- Ed è assurdo pensare a risposte tipo -Sono un piatto di pasta- o -Sostengo il sugo nelle mie righine-. La consapevolezza di percepire basta per renderti ben capace di distinguere te stesso dalla cosa che stai percependo. Nel mio giochino il cane questa cosa non la sa fare, se gli dai l'amatriciana avanzata, e mentre se la mangia gli chiedi -Che stai a fa?- Supponendo che lui possa risponderti ti risponderebbe -Sostengo questo squisito sugo nelle mie righine-

Come TUTTE le parole usate prima da Leibniz e poi da Wolff la parola "appercezione" finisce nelle mani di Kant. E come tutte le parole che finiscono nelle mani di Kant, lui la usa per significare qualcos'altro. L'appercezione diventa di due tipi, da una parte c'è quella empirica, che è grosso modo quello di cui parlavano Leibniz e Wolff, dall'altra parte c'è quella pura. Che cos'è l'appercezione pura? L'appercezione pura è l'<<Io penso>>, cioè l'assoluta consapevolezza e l'inamovibile certezza di esistere, certezza precedente a qualsiasi pensiero. Questa appercezione pura accompagna ogni tipo di percezione, ed in qualche modo la precede.  E' quindi la condizione di possibilità di ogni rappresentazione. Essa è "La coscienza pura di quell'attività che costituisce il pensiero".

Tutto questo non ci interessa. O ci interessa solo relativamente. Ci ho messo anche Kant perché Kant è bellissimo, e bisognerebbe trovare sempre lo spazio per parlare un po' di Kant, ma tutto sommato per capire cosa intendo io per appercezione Kant non vi serve. La mia è infatti una rielaborazione di come l'appercezione la intendono Leibniz e Wolff.

L'appercezione è per me la capacità di comprender-si per quello che si è, ma non in senso epistemologico wolffianamente o in senso trascendentale kantianamente, in senso pratico semplicemente. Sei un panettiere? L'appercezione consiste nel comprender-ti come panettiere, se un giorno decidi di fare il cardiologo e operi tuo cognato a cuore aperto sei destinato a fare un disastro, perché? Perché sei un panettiere e non un cardiologo. Vale anche al contrario eh, non pensate. Fai il panettiere? Eppure tu sei un cardiologo, lo senti, lo sai, ne sei consapevole, ti appercepisci come cardiologo, ti metti a studiare e in quattroequattr'otto diventi cardiologo.
In questi due esempi abbiamo parlato: nel secondo caso di un essere umano, che infatti si dimostra capace di appercezione, nel primo caso invece di un cane, che infatti è privo di appercezione. E più uno è cane, e meno capisce, meno appercepisce.  Per capire ancora di più quello di cui sto parlando dovete immaginarvi Nanni Moretti, ve lo ricordate Nanni Moretti che in "Sogni d'oro" urlava: -Che parlo mai di epigrafia greca?- Ecco, mutatis mutandis, sostituite al "parlare di" un "fare" e capirete le strilla di Nanni per quello che sono: una incitazione all'appercezione. In realtà Nanni non ha ben capito la questione dell'appercezione, o perlomeno qui non mostra essenzialmente quello. La diversità fra "parlare di qualcosa" e quella via di mezzo fra "fare qualcosa" ed "essere qualcosa" di cui parla il mio concetto di appercezione è troppo rilevante. Prendersela con chi "parla di cose che non conosce" è in realtà una posizione che non condivido, e lo si capisce subito il perchè: io quasi non faccio altro. Troverei assurdo arrivare a credere che bisogna contenersi dal parlare di tutto quello di cui non si conosce, l'unico modo in cui ritengo sensato fare un invito del genere è la richiesta di silenzio assoluto dei mistici. Quello che invece, Nanni damme retta, è indispensabile per non essere cani è l'appercezione. Vuoi parlare di epigrafia greca, di astrofisica, di cardiologia o delle dighe e dei ponti? Prego, accomodati. MA ricorda! Parlane facendo capire, a te stesso e a chi ti ascolta, che non ne sai niente. Questa è l'appercezione, e penso che sia anche facilmente avvertibile dagli interlocutori.
-Dopo un pò me ne accorgo che tu non hai appercezione, che stai parlando di epigrafia greca ma non ne capisci un cazzo, magari non sò che Leibniz o GGervinho la chiamano appercezione, ma so come ti chiami tu: Cane-.

Arriviamo al nostro esempio. L'avete mai visto "Escape Plan, fuga dall'inferno"? Beh, vedetelo, è un film incredibilmente appercettivo, straordinariamente appercettivo. Ed in generale Stallone è il maestro assoluto dell'appercezione. Ora io inizierò a parlare di questo film come se ogni merito fosse di Stallone in barba al regista Mikael Håfström, allo sceneggiatore Miles Chapman, al produttore Mark Canton, al direttore della fotografia Brendan Galvin e così via per tutti quei ruoli che scorrono sullo schermo nei titoli di coda, che io personalmente ignoro, non capisco, e di cui non mi interesso. Lo so che non è così che si parla di cinema, non è così che funziona il cinema, ma a me non frega niente. Stallone. Che cos'è che ha capito Stallone negli ultimi dieci anni? Ha capito chi è. Lui lo sa. Tant'è che si è inventato "The Expendables", che è la vetta appercettiva del cinema del nuovo millennio. Probabilmente sarebbe più proprio parlare di quello per spiegarvi l'appercezione di Stallone, anche perché è un film scritto, diretto ed interpretato da Stallone stesso, ma ho scelto comunque di parlarvi di Escape perché l'ho visto ieri sera, e perché è un film dalla storia travagliata, per quel poco che ne so da qui, e probabilmente l'unico motivo per cui esiste questo film è il contagio appercettivo che Stallone ha portato all'intero progetto.
Il soggetto è carino per carità, ma niente di che, c'è un professionista che di lavoro scappa dalla prigioni per testarle, una specie di Houdini incrociato con un haker buono, ed ad un certo punto viene messo nella prigione peggiore di tutte. Ovviamente le cose cambiano se quello che scappa dalle prigioni di mestiere è Stallone. Perché, beh, lui effettivamente scappa dalle prigioni di mestiere. Abbiamo un produttore che ha in mano un buon soggetto scritto bene, ma per anni si addanna l'anima per trovare un regista, un protagonista, un cast di rilievo, poi arriva Stallone e si porta appresso tutti i suoi amici, e il cast diventa stellare: Jim Caviezel, Vincent D'Onofrio, Amy Ryan, Sam Neil, Vinnie Jones, 50cent ed infine, squilli di trombe, niente meno che Arnold Schwarzenegger. Il progetto in poco più di un anno vede le sale. Ecco vedete, questa cosa Stallone l'ha capita, i buoni film si fanno con i buoni attori, i buoni film d'azione si fanno con i bravi attori d'azione. Il film fondamentalmente si regge sugli sguardi d'intesa fra lui ed Arny, fra le loro battute e il loro modo di recitare ruvido e minimale. E di nuovo, appercezione: Sly e Arny non si percepiscono come due attori compassati, capaci di performance drammatiche, fanno i cazzoni, e tali sono. Nel momento in cui Arny dovrebbe esprimere sofferenza e recitare davvero che fa? La butta in burletta e si mette a strillare insulti in tedesco, in una escalation comica che, sempre in tedesco, gli fa recitare prima il padre nostro, e poi il famoso passo della "Gaia Scienza". In un'epoca col feticismo dei metalivelli e delle citazioncine colte quella di Escape è raffinatezza. Raffinatezza dovuta alla semplicità e all'appercezione. Arny è austriaco, facciamogli urlare qualcosa in tedesco, che c'è di famoso in tedesco? Boh Nietzsche.
L'incredibile consapevolezza che Stallone ha dei propri mezzi recitativi ed attoriali, e perfino atletici visto che alla sua età si dedica più a fare il McGiver che il Rambo, però, non si limita a farlo agire in maniera coerente e mai pretenziosa, ma influisce anche su di noi. Un film che si percepisce per quello che è, cioè in questo caso un buon prodotto di intrattenimento e null'altro, ci permette di non confonderci mai con quello che stiamo guardando, garantendo alla sospensione di incredulità di avere una corazza indistruttibile. Quando Stallone fa esplodere dei bulloni fuori dalla seghettatura semplicemente scaldandoli, a nessuno viene in mente di pensare se quella cosa sia possibile: la fa Stallone in un film di Stallone, che c'azzecca la realtà? Quando in fuga appeso alla scala a pioli di un elicottero, pensa bene di distrarre Arny che stava sparando l'impossibile con la sua mitragliatrice gigante, per chiedergli di lanciargli una pistola, che lui afferra al volo, mentre una delle due corde della scala si spezza, mentre tutti i cattivi gli sparano, e lui con la sua pistolina prende e spara distrugge tutti, ecco, quando fa così voi che pensate? Pensate che era l'ora! Di certo non che tutto questo non sia possibile.

Quindi, per ritornare alla trattazione estetica del concetto di appercezione, io ne ho bisogno, non solo per parlare del grado di auto-consapevolezza e padronanza espressiva di un autore nella sua opera (un film o una serie TV ma anche di un romanzo o di quello che volete), e cioè praticamente quanto un'opera di qualche tipo riesca a situarsi bene nel genere in cui si pone (che vuol dire il suo linguaggio), gestendo con successo il proprio fine comunicativo; ma anche per poter comprendere e giudicare correttamente quello che stiamo vedendo (sentendo, leggendo). Perché per giudicare correttamente qualcosa non possiamo basarci sulle aspettative che nutrivamo nei confronti dell'opera che stiamo giudicando, comportarsi così significa necessariamente confondere il soggetto percIpente (cioè noi) con l'oggetto percIpito (cioè l'opera).Per farvi un ultimo e conclusivo esempio: lamentarsi dei buchi di trama in Star Wars o nei film Marvel significa non capire il genere in cui questi tipo di film si pongono e quale fine comunicativo possiedono? Sicuramente sì, è vero, però se dei film del genere attirano così tanta attenzione sulle loro trame, da focalizzarle come bersaglio della critica, significa anche che hanno mancato di appercezione. La colpa non può essere del pubblico se a vedere un film, questo mi dà l'impressione di sentirsi scritto bene, se un film si appercepisce come film scritto bene, io sarà fra i film scritti bene che lo giudicherò, non fra i film di Stallone, cioè quelli sui supereroi.

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